È un jazz dai colori brillanti, di traboccante vitalità, fitto di soluzioni innovative e allo stesso tempo toccanti, capaci di sorprendere brano dopo brano e ad ogni riascolto. Questo, in sintesi, quanto custodisce l’album che stringete fra le mani.
Che omaggia Bill Evans all’insegna della reinvenzione giocosa, interpretando non alla lettera ma nell’essenza quel concetto di interplay, atto di nascita del pianismo jazz contemporaneo, che i suoi trii (leggendario quello con Scott LaFaro e Paul Motian) hanno lasciato in eredità.
Reinvenzione ritmica, anzitutto. Ed ecco spiegato il titolo: Altri tempi perché nessun brano del genio statunitense scomparso prematuramente a cinquantun’anni nel 1980 (o del suo repertorio) in scaletta, ad eccezione del solo Falling grace, viene affrontato con i parametri soliti.
L’iniziale Periscope, per esempio, viene trasformata dal 4/4 abituale in un 3/4 che scalda il cuore, rivelandosi subito uno dei vertici espressivi dell’album.
La traccia che segue, In my home, è l’unica composizione originale del disco e ne costituisce un altro snodo importante per due motivi.
Per la bellezza avvolgente, dai guizzi quasi narrativi, del tema di Dino Massa, per il suo riferimento, seppure intimo e poetico, al maggiore dramma collettivo di questi anni che ci ha costretti per lunghi periodi chiusi in casa.
E perché siamo di fronte ad un brano il cui significato sembra volersi espandere oltre la sua durata, improntando di sé il valore e il significato complessivo dell’album: sulle tracce si di un maestro del passato ma per raccontarsi e per ricercare. Forse, sembrano suggerire la maturità e l’umiltà del pianista napoletano, disvelarsi è nascondersi. E viceversa.
Ma attenzione. Questo, proprio per quanto detto sopra, è il disco di un gruppo. Certo è dai tempi di quel gioiellino che era Waltz for Bill compreso nell’album Un po’ come… noi (CDJ 1117) registrato con Piero Leveratto al contrabbasso e Claudio Borrelli alla batteria che era lecito attendersi, pur nella versatilità del mondo espressivo di Dino – quasi un marchio di fabbrica consapevolissimo, sornione e poetico del suo essere pianista, compositore, arrangiatore -, una sorta di faccia a faccia con un archetipo così invincibilmente affascinante.
Eppure questo è il disco di una formazione unitaria. In cui Dino, Dario e Marco agiscono senza gerarchie. La cui reinvenzione giocosa è anzitutto di tempi ma subito dopo di suono. E in questo senso il ruolo svolto dal basso elettrico di Dario Spinelli è quello che lo connota maggiormente. La scelta dello strumento elettrico è decisiva: nell’esposizione dei temi, nell’intercalarsi degli assoli, nel cesellare le intensità e i volumi del sound Dino e Dario si completano, si inseguono, la fusione elettroacustica degli strumenti crea chiarori improvvisi, movimenti che rimandano alla lucentezza e alla velocità, all’esplorazione affilata delle note. Dino, Dario e Marco. Anzi, la batteria di Marco Castaldo è dietro, è prima, scandisce il dinamismo di queste novità d’arrangiamento non solo insieme a piano e basso ma quasi ispirandoli, tracciando la rotta: è in questa prospettiva che possiamo definire la parte finale di Nardis – con piano e basso in souplesse su un pattern – un assolo di batteria.
Certo, se la strategia di Dino, che si invera in quella del piccolo complesso, è in definitiva quella di provare l’approccio non frontale al cospetto della musica di un gigante (scoprirete da soli gli scherzi e i divertimenti nei brani che non ho citato) con la conclusiva Very early i nodi vengono definitivamente al pettine.
Si tratta probabilmente di una delle composizioni della storia del jazz dal lirismo più abbagliante e indimenticabile.
Il trio la prende su un ritmo veloce in 4/4 modificando l’originario 3/4, praticamente l’operazione inversa a quella attuata con l’iniziale Periscope. Risultato? Il risultato è un Girotondo – cito il titolo dell’indimenticato esordio su cd di Dino Massa – della memoria e delle emozioni.
Che da quelle dei musicisti arrivano a noi. E che forse proprio così cattura della quasi inafferrabile bellezza della composizione evansiana quello che Glenn Gould diceva di voler fermare di Bach nelle sue esecuzioni: the essence.
Pietro Mazzone